• I confini e i limiti dell’autonomia del Rspp nella valutazione dei rischi

    Commento utile di Pierpaolo Masciocchi in WEB “Sicurezza24”

    La Corte di Cassazione, Sez. pen., con sentenza n. 2406 del 18 gennaio 2017 – esaminando il caso di un incidente sul lavoro dal quale è discesa la morte del lavoratore – è tornata ad esprimersi sui poteri afferenti al ruolo di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi ed ha ribadito il principio in base al quale sull’RSPP incombe “l’obbligo di valutare con diligenza e prudenza i processi produttivi, individuando tutti i possibili fattori di rischio e segnalandoli al datore di lavoro per l’adozione degli opportuni provvedimenti”.

    Il tema affrontato dalla Suprema Corte è di tutto rilievo, considerando che frequenti sono i casi – soprattutto nelle imprese di più ridotte dimensioni – in cui il datore di lavoro si avvale dell’opera di consulenti esterni per l’elaborazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi. Sovente accade che lo stesso DVR venga integralmente predisposto dal consulente, anche in assenza di un rapporto contrattualmente formalizzato con il datore di lavoro.

    La sentenza in commento ha quindi il merito di chiarire confini e limiti del potere di iniziativa del RSPP nell’ambito del processo di valutazione dei rischi, distinguendo i casi di responsabilità del consulente per eventuali infortuni sul lavoro derivanti da una non corretta individuazione di adeguate misure di tutela da quelli in cui la responsabilità deve essere fatta ricadere direttamente sul datore di lavoro.

    A questo proposito non può non rammentarsi come sovente è stato affermato che i consulenti, essendo semplici ausiliari del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, proprio perché difettano di un effettivo potere decisionale.

    Essi sono soltanto dei consulenti e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come pacificamente avviene in qualsiasi altro settore dell’amministrazione dell’azienda (ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico ecc.), vengono fatti propri da chi li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario.

    In altre parole il consulente ha il compito di coadiuvare il datore di lavoro nell’assolvimento dei suoi doveri, fornendogli quelle competenze tecniche ed organizzative di cui ha bisogno, attesa la varietà e complessità degli interventi diretti a garantire la tutela della salute e della sicurezza dei dipendenti, ma non ha autonomo obbligo di effettuare controlli sulla effettiva applicazione dei presidi antinfortunistici, in quanto privo di quella posizione di garanzia che il legislatore ha identificato espressamente in capo al datore di lavoro, al dirigente e al preposto, nell’ambito delle loro rispettive attribuzioni e competenze.

    Applicando le regole generali del diritto penale ai reati contravvenzionali in materia di sicurezza e prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, emerge che si tratta di reati propri, tali da poter essere commessi solo da soggetti che rivestano le speciali qualifiche individuate nel precetto legislativo sanzionato, ossia il datore di lavoro o il committente nel caso di appalto, il dirigente, il preposto, il medico competente, il progettista, il fabbricante, il venditore, ecc., figure soggettive tra le quali non spicca mai il responsabile o l’addetto al servizio di prevenzione e protezione.

    Secondo questa impostazione, inoltre, il consulente non avrebbe alcun dovere di valutare la rispondenza o meno ai prescritti requisiti di sicurezza, né di valutare (e prevenire) eventuali rischi connessi ad attività di personale di ditte esterne operanti in regime di appalto.

    In altre parole la valutazione giuridica sottostante a questa tesi è fondata sul principio che il ruolo di consulente non comporta l’assunzione di un obbligo di attivarsi per la prevenzione in quanto, la mera posizione di consulente non è da sola sufficiente a creare una posizione di garanzia assimilabile a quella di un datore di lavoro, o di un dirigente, o di un preposto.

    E infatti, quand’anche il consulente abbia omesso di agire per controllare l’adeguatezza della macchina concessa in uso dal datore di lavoro, va tuttavia richiamato il principio secondo il quale il “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” (art. 40 c.p.) solo in quanto vi sia, appunto, un obbligo giuridicamente identificabile, cosa che come si è detto sopra non è dato rinvenire a carico del consulente. In questo caso non avrebbe nemmeno senso parlare di cooperazione colposa (art. 113 c.p.) del consulente con il datore di lavoro, diventando questa un’ipotesi di connivenza non punibile.

    A ben vedere, nei casi prospettati, deve essere distinto nettamente il piano delle responsabilità prevenzionali derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo, da quello delle responsabilità per reati colposi di evento, quando cioè si siano verificati infortuni sul lavoro o tecnopatie in quanto, nel caso in cui l’errore valutativo del consulente abbia comportato non la creazione di un semplice stato di pericolo, ma la produzione di un evento lesivo dell’incolumità e della salute di un terzo, ci si trova davanti ad un reato comune di danno e la ricerca delle responsabilità va, quindi, compiuta alla stregua del normale criterio secondo cui qualunque comportamento colposo abbia contribuito a produrre l’evento lesivo, nella misura in cui tale condotta si inserisca eziologicamente nel determinismo causale, genera in chi l’ha posto in essere la responsabilità per ciò che è accaduto.

    Ad esempio, anche il consulente che, agendo con imperizia, imprudenza, negligenza o osservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato, oppure abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo così il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale, risponderà assieme a questi dell’evento di danno derivatone, essendo a lui ascrivibile a titolo di colpa professionale che può assumere, in alcuni casi, un carattere addirittura esclusivo.

    Secondo questo indirizzo, risulterebbe evidente la sussistenza, a carico dello stesso consulente, di un obbligo di sicurezza che trova una sanzione mediata nel codice penale, realizzando così un sistema che – nel caso di specie – richiede al consulente il conseguimento di un risultato e non semplicemente l’applicazione della ordinaria diligenza.

    Sulla base di questa impostazione, a fronte della causazione di un evento lesivo di danno occorso ad un lavoratore per omissioni di adeguati presidi antinfortunistici, non vi è solo una responsabilità diretta dei soggetti obbligati giuridicamente ad attivarsi per impedire l’infortunio (datore di lavoro, dirigenti, preposti), ma vi è anche, a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 c.p., la responsabilità del consulente per aver concorso nell’omissione, conferendo allo stesso pertanto un obbligo di attivarsi che in realtà non pare rinvenirsi dai principi generali del diritto penale, mancando in principio l’obbligo di attivarsi in capo all’RSPP.

    Come noto, la vigente normativa prevenzionale demanda esclusivamente al datore di lavoro il fondamentale onere di organizzare la sicurezza sul luogo di lavoro e di valutare i rischi esistenti; pertanto, le responsabilità conseguenti alla omessa o errata valutazione del rischio medesimo fanno capo esclusivamente a lui. Da ciò non deve tuttavia discendere la conclusione dell’esistenza di una sorta di immunità sanzionatoria per i consulenti.

    Concentrando l’attenzione sulla figura del consulente, la giurisprudenza si è chiesta se effettivamente tale soggetto possa considerarsi completamente irresponsabile per il mancato svolgimento dei compiti assegnati dalla legge o se, in qualche modo, possa ritenersi coinvolto laddove si verifichino fatti causalmente collegati a tali omissioni.

    Ovviamente, in virtù di quanto sopra il consulente non potrà mai essere il destinatario di una contravvenzione in materia regolata dal D.Lgs. 81/08, ma ciò non toglie che lo stesso possa essere oggetto di eventuali altri profili di colpa ai sensi dei principi del diritto penale. 

    Sotto tale aspetto occorre allora esaminare il discorso relativo alla possibilità di ravvisare in capo al consulente una responsabilità per evento lesivo secondo i criteri generali di cui all’art. 43 c.p., ovvero nel caso in cui il consulente abbia omesso di segnalare una situazione di pericolo o mal consigliato il datore di lavoro nella programmazione delle misure di sicurezza.

    Un conto è, infatti, l’inadempimento in sé e per sé considerato di compiti previsti dalla legge e non sanzionati con apposite e specifiche contravvenzioni. Altra e ben diversa cosa è capire se, qualora a seguito di tali omissioni si sia verificato un evento lesivo del bene costituente oggetto della tutela penale, esse possano essere considerate causalmente rilevanti.

    In questo senso può sostenersi che la non riferibilità delle norme del D.Lgs. 81/08 al consulente non esime lo stesso da responsabilità in caso di situazioni peculiari, e in particolare di infortuni sul lavoro causati dalla omessa o insufficiente predisposizione di mezzi di prevenzione e protezione in presenza di rischi derivanti dall’espletamento dell’attività lavorativa non individuati dal servizio di prevenzione e protezione; si può ritenere che in tali casi la violazione di singole disposizioni di tale decreto potrà costituire un profilo di colpa specifico a carico dei consulenti qualora si dimostrasse in concreto la sussistenza dell’elemento soggettivo colposo con riferimento all’evento lesivo verificatosi; la giurisprudenza ha recentemente ritenuto che il consulente può essere chiamato a rispondere di eventuali eventi lesivi verificatisi in azienda secondo il meccanismo dell’art. 113 cp.

    Un eventuale responsabilità del consulente deve essere ricercata nel mancato adempimento di quei compiti di carattere consultivo che la legge prevede a suo favore/carico. 

    Al consulente, ad esempio, potrà essere rimproverata e addebitata l’omessa segnalazione dei fattori di rischio e se tale omissione abbia avuto un ruolo causale (o concausale) nel determinismo dell’evento sarà chiamato a risponderne. Quando invece sia ravvisabile una delega delle funzioni e responsabilità in tema di sicurezza da parte del datore di lavoro ad un soggetto, quest’ultimo dovrà adempiere gli obblighi previsti dalla legge e risponderà delle relative inosservanze.

    In questa direzione si è recentemente espressa la Corte di Cassazione (Cfr. Cassazione Penale, Sez. 4, 25 giugno 2015, n. 26993), in base alla quale “colui che cooperi con propria condotta agevolatrice alla produzione dell’evento è chiamato a risponderne”.

    I supremi giudici, in estrema sintesi:

    • Condividono l’interpretazione “adottata dai giudici di merito in ordine alla configurabilità di una posizione di garanzia in capo al consulente alla cui collaborazione il datore di lavoro ricorra per eseguire la valutazione dei rischi connessi all’attività lavorativa
    • Affermano che “tanto la dottrina che la giurisprudenza di legittimità ritengono che una posizione di garanzia – presupposto essenziale ancorché non esclusivo dell’imputazione di un evento illecito in forza della regola della ‘causalità equivalente’ di cui all’art.40 cpv. c.p. – possa essere costituita oltre che dalla legge e più in generale da fonti di diritto pubblico, anche dal contratto”. In particolare il Consulente Esterno assunse su base contrattuale – ancorché priva di forma scritta – il compito di collaborare con il Datore di Lavoro nell’attività di risk assessment che esita nella redazione del documento di valutazione dei rischi.
    • Pongono in risalto che “la cornice normativa appena evocata é esattamente quella nella quale viene collocata l’attribuzione della responsabilità per un avvenuto infortunio al responsabile del servizio di prevenzione e protezione che abbia offerto o mancato di offrire ‘per colpa’ – ovvero per negligenza, imprudenza, imperizia o violando positive regole cautelari – al datore di lavoro un contributo nella elaborazione della valutazione dei rischi, quando dalle deficienze di questa imputabili al cooperatore sia derivato, secondo un rapporto di connessione eziologica, l’infortunio”.
    • Ritengono “privo di pregio l’argomento difensivo della mancanza di conoscenza nel consulente dell’uso del mezzo d’opera presso la fattoria oggetto della consulenza” (informazioni che secondo la difesa non erano state trasmesse dal datore di lavoro al consulente) dato che il Consulente “effettuò una visita presso le varie sedi dell’azienda, venendo così a conoscere dell’unitarietà della gestione pur a fronte delle diverse intestazioni; che egli esaminò il trattore, già allora obsoleto e non dotato di essenziali ed obbligatori dispositivi di sicurezza quali il rollbar e le cinture di sicurezza, e ciò nonostante lo indicò come “in buone condizioni’, senza evidenziare che non era idoneo all’utilizzo su qualsiasi tipo di terreno. Puntualizzazioni che descrivono il pertinente bagaglio informativo in possesso del Consulente”.

     cass pen 2017 2406

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